Memoria eterodossa 2021

L’ANIMALE NON PARLA, L’ANIMALE CI GUARDA

L’animale che dunque siamo, nello sguardo dell’animale

di Nicola Davide Angerame

Filosoficamente parlando la questione dell’animale è sempre anche la messa in questione
di colui che “mette in questione”, ovvero è la questione del soggetto che pone la domanda
e questo perché “ogni mio incontro con l’animale mi interroga in ciò che mi distingue da
lui”.

Essere umani significa innanzitutto uscire dall’animalità, distinguersi e superarla. L’uomo,
dotato da proprietà che lo distinguono da tutto il resto del creato, si distingue innanzitutto
proprio dall’animale.

La prima risposta alla questione è individuata dai greci antichi. Aristotele definisce l’uomo
come animale razionale, come zoon logon echon, animale dotato di parola e raziocinio; il
concetto greco di logos include la parola (il segno, il concetto, il simbolo) e la facoltà della
ragione che nella parola trova espressione e condizione di possibilità.

La questione dell’animale/uomo sembra dunque essere legata alla parola.

Se vogliamo sapere chi siamo, l’animale ci sarà di aiuto come “specchio” e pietra di
paragone, come ciò da cui proveniamo e che rifuggiamo, che ci origina e che superiamo.
L’uomo arriva dopo l’animale, ne prende il testimone e si emancipa (mai una volta per
tutte, a dire il vero: lo porta con sé, dentro di sé come una scoria che non si può smaltire).

L’animale, come la gatta di Jacques Derrida (che ha dedicato all’animot testi decisivi) è
sguardo puro senza parola e senza resti, senza giudizio ne’ morale. E Derrida, costretto a
“concludere” (ma è più un interrompere) il proprio discorso filosofico alla fine della sua vita,
pensa alla sua gatta fino al punto estremo della rottura semantica della parola “animale”,
sostituendo ad essa il neologismo “animot”, che è la congiunzione di due termini: animal e
mot (parola) che si pronuncia come animaux che significa animali, al plurale. Coniando la
parola per dire l’animale, Derrida intende dirci che: 1. la parola con cui pensiamo e
parliamo dell’animale, ovvero “animale”, non trova aderenza alla realtà poiché nel mondo
reale esistono soltanto gli animali, al plurale, masse di esemplari (che parola!), di
moltissime e diversissime specie; 2. la parola “animale”, è innanzitutto e sempre un modo
di pensare l’animale che lo pensa nella chiusura del suo discorso (sia quello che lo
riguarda come un oggetto indagato dal pensiero umano, sia quello che esso stesso
potrebbe attuare come “soggetto” della comunicazione ma con parole fatte di sguardi
invece che di lettere). Divenuto pietra di paragone (per ri-pensare meglio colui che pone la
domanda sull’animale, ovvero l’uomo medio), l’animot diventa ora per Derrida una vera e
propria pietra d’inciampo per il logocentrismo, per quel discorso che è proprio dell’uomo
medio nel momento in cui egli conclude, e chiude, il discorso (diretto) dell’animot parlando
(per conto) dell’animale. Un tale uomo è anche il “filosofo medio” che Derrida si rifiuta di
essere, volendo filosofare innanzitutto per decostruire il discorso umano e per lasciare che
la voce di altri discorsi possibili e alternativi sia. Derrida vede nell’animot la parola capace
di scardinare quella “religione della ragione” verso la quale il filosofo nutre il profondo
sospetto che sia causa di quella violenza metafisica che è la radice e la forza propulsiva di
ogni altra violenza possibile. L’animale non conosce violenza poiché aderisce senza resti
ai propri impulsi di difesa e attacco, sempre motivati dall’istinto di sopravvivenza. La
sopraffazione e il sopruso sono invenzioni dell’uomo, non dell’animale, e ciò perché
l’animale è privo dell’Io, di quella struttura che si forma e si alimenta con la parola creando
un universo simbolico che, come una realtà virtuale, origina o accoglie ogni tipo di “nuovo
oggetto” ed ogni travestimento e travisamento della realtà naturale che invece è spoglia
del simbolo e che soltanto l’animale conosce in quanto tale. L’Io compie inevitabilmente un
rinvio del reale, vive in un ritardo costante offerto dall’intermediazione del simbolo. E il
simbolico prende il sopravvento sulla realtà naturale, portando l’Io a vivere in un mondo
che non aderisce mai o quasi mai al reale naturale. Due aspetti lo provano: (1) la crisi
ecologica che appare come l’effetto inevitabile di un travisamento della natura da parte
dell’uomo medio (2) la dimostrazione, offerta dall’etologo Konrad Lorenz, che una vita di
comunità vissuta in aderenza alla natura (attraverso l’imprinting1) è possibile all’animale
proprio perché non è dotato di un Io che vive e si potenzia come individualità assetata ed
irriconoscente e, spesso proprio per questo, irriconoscibile perfino a se stessa (da qui il
problema dell’inautenticità come pericolo estremo per l’uomo medio). Nell’universo
simbolico costruito dall’Io la virtualità apre lo spazio ad una aleatorietà che l’Io interpreta
come libertà e come libera scelta. Il gioco della manipolazione che l’Io compie sul proprio
mondo simbolico fatto di sensi e significati, valori e pregiudizi, gli permette di accedere alla
finzione (l’animale non sa fingere) ed all’incomprensibilità, così come alla vanità e alla
violenza.
Nietzsche chiama tutto ciò “volontà di potenza”. Il simbolico è gioia e dolore dell’Io, nel
quale l’uomo medio occidentale, dopo aver ucciso Dio ed essersi messo al suo posto,
s’identifica totalmente e così facendo si perde.
“Ormai soltanto un dio ci può salvare” conclude il 23 settembre 1966 Martin Heidegger
verso la fine del suo percorso di vita e di pensiero e lo fa in un’intervista da pubblicare
postuma nel 1976 con due inviati del settimanale tedesco Der Spiegel Ma a quale dio si
appella Heiddeger? Oggi che dio è morto, non è proprio l’animale che ci può (forse)
salvare? Resta da pensare…
E se fosse l’animale a diventare un dio? Come in India o nell’antico Egitto, per esempio. E
se il suo sguardo fosse capace di lasciarci essere e diventasse come la parola di Dio, che
nel nominare le cose, le crea? L’animale ci guarda ed il suo sguardo ci mette al mondo, ci
dice: “tu esisti, in quanto tale”, l’animale ci lascia essere perché non ci giudica, non ha

1 Tale concetto, decisivo per l’epistemologia evoluzionistica fondata proprio dall’etologo e premio Nobel, implica una comprensione immediata della realtà circostante che per il pensiero discorsivo umano appare come una contraddizione in termini. L’animale dunque può fare cose che all’uomo sembrano precluse, ma può fare anche di più, come vedremo.

parole di dominio con cui incasellarci, de-finirci, annichilirci in un discorso suo e non
nostro: non ne ha il potere, che deriva dal manipolare la dimensione del simbolico per
dominare il mondo (dei significati). Il soggetto umano diventa così l’oggetto dello sguardo
silenzioso dell’animale; è il medio, colui che partecipa delle due dimensioni e nature, il trait
d’union tra le due dimensioni della divinità e dell’animalità. L’uomo è l’unico a dover
compiere la fatica di appoggiarsi all’intermediazione del simbolo, del concetto. La ragione
umana, riconsiderata da questo punto di vista, sarebbe dunque un meccanismo di
conquista certa, ma anche una facoltà inferiore, faticosa, macchinosa. Nulla a che vedere
con la facilità e l’immediatezza dell’istinto animalesco o dell’atto volitivo creativo di Dio2.
Così, i due antagonisti dell’uomo sarebbero più vicini tra loro di quanto non lo sia lui a loro.
Un triangolo isoscele (due lati lunghi e uno corto, al vertice l’uomo) sarebbe la
rappresentazione più immediata di questo rapporto a tre nel quale ogni elemento è
necessario per l’esistenza degli altri, ontologicamente necessario: ciascuno degli elementi
si costituisce in quanto tale nella distinzione/relazione con gli altri due.
Ognuno di essi “fa esistere” gli altri come essi stessi sono: fine dunque del logocentrismo
e del primato umano sia rispetto all’animale, sia rispetto a quel dio “vittima” del
razionalismo assoluto (da ab solutum: sciolto da, slegato, liberato) espresso da
sant’Anselmo o da Cartesio attraverso le loro “prove” dell’esistenza di Dio? Fine, dunque
dell’annoso tema della hybris umana3? Eppure viviamo nel mondo costruito dal
logocentrismo, che pure ha i suoi pregi, proprio pare, in quanto ci distingue. Siamo tuttavia
animali logocentrici.
In tutto questo l’arte, come un tempo la religione, trova la propria giustificazione ontologica
nel contestare questa religione della ragione a cui il mondo della tecnica ci ha votati,
facendo piazza pulita dello spirito, del dio e quindi dell’animale. Solo un esempio: l’India
dei “santoni” (il termine è in Occidente un dispregiativo) e della vacca sacra (il termine è in
Occidente offensivo) ci appare incomprensibile, perfino inconcepibile, al punto da non
rappresentare assolutamente un punto di vista valido. La cesura tra Oriente e Occidente
passa anche per l’animale: la vacca sacra diventa in Occidente l’hamburger di McDonald:
cibo di massa e ammasso di cibo. L’Occidente logocentrico prima definisce e poi usa
l’animale come un oggetto a propria disposizione. Ma l’animale soffre? È dotato di questa
capacità tutta umana che, come l’empatia, ci permette di toccare il fondo più buio
dell’essere e lì rischiare di toccarlo4? La vacca è sacra, ma se lo fossero anche la formica,

2 Il Dio della Bibbia, colui di cui non si può pronunciare il nome (proprio perché nominarlo significa de-finirlo e quindi concluderlo nel discorso umano), è diverso dall’uomo proprio perché egli crea le cose nell’atto stesso di nominarle.
Questa lettura teologica di Dio ci appare ancora debitrice di uno studio razionalista della natura divina in relazione alla sua differenza rispetto alla natura umana, la quale a sua volta (ma è sempre l’uomo a parlare, tanto per Dio quanto per l’animale) invidia a Dio questo nominare-creare al punto che egli stesso apparecchia un mondo simbolico sempre più ricco, complesso (e prevaricatore) nel quale organizzare il proprio dominio del mondo reale naturale: ed è in questo mondo simbolico che l’uomo si riappropria del potere del dio: nominare è creare…
3 La questione della hybris, traducibile come tracotanza, superbia e prevaricazione, appare decisiva sia per i Greci, Eschilo in primis, sia per i cristiani: Dante Alighieri vede il peccato annidarsi nella hybris dell’uomo, che pretende di giungere con la ragione a comprendere la natura misteriosa del divino, e così facendo ponendosi egli stesso come Dio (hybris è Prometeo, così come la Torre di Babele). Nel XX secolo laico e scolpito dai tre filosofi del sospetto (Marx, Nietzsche e Freud) la hybris diventa la tracotanza filosofica propria del discorso umano che pretende di imporsi su tutto (sulla Natura, su Dio e sull’Animale).
4 Si pensi alla teorizzazione della sofferenza come malattia, e questa come “grande salute” da parte di un Nietzsche

l’ornitorinco e l’elefante? E con loro tutti gli animali e le piante? Finiremmo nel Giappone scintoista, nel panteismo più “indistinto” che l’Occidente ha teorizzato con Giordano Bruno e con i mistici, i quali sostengono “tutto è pieno di Dio”. Anche l’animale, dunque? Distanze incommensurabili quelle tra est ed ovest? Ma attenzione, perché da come pensiamo l’animale dipende come lo trattiamo e da come trattiamo lui dipende come trattiamo noi stessi, sempre più (s)oggetti ad essere trattati come oggetti tra le cose utilizzabili, cui l’animale, domestico o no, a causa nostra già da sempre appartiene. “Il futuro dell’uomo è l’animale” sentenzia acutamente Gianni Vattimo5. Primo assioma animalista: ri-pensare l’animale in quanto tale e non come oggetto a nostra disposizione. Quindi, ribaltare la prospettiva: proprio perché l’animale non ha parola, non soffre, non sa di morire, non conosce pudore, non accede al simbolico, non ragiona, ecc… (forse anche Dio è così) proprio per questi motivi è sacro (sacro proviene dal latino sacer che significa
“separato”)6 e tocca all’uomo prendersene cura, in senso ontologico innanzitutto. Riconoscere
all’animale il suo ruolo nel ménage à trois che abbiamo col dio e con lui. Perché
se noi possiamo farlo essere cosa da sfruttare o compagno di vita da accudire, allora
possiamo anche farlo essere in quanto tale, lasciarlo essere, abbandonarlo al proprio
essere, farlo esistere nel nostro stesso modo di esistere di esseri abbandonati 7.
L’animale non è come noi, e questo ci giustifica a sfruttarlo, ma proprio questo
richiederebbe una responsabilità maggiore da parte umana: il suo dover prendere su di sé
la fragilità ontologica dell’animale (il suo silenzio, vedi nota su G.Vattimo): questo suo
essere così esposto al (giorno del) giudizio umano, quasi sempre viziato da conflitto

sempre più malato eppure sempre più filosoficamente lucido nel suo ultimo progetto poetico filosofico che è lo Zarathustra. A tal proposito, Marco Vozza ha scritto pagine illuminanti che, sulla linea tracciata da Jean-Luc Nancy, mettono in relazione la verità e il corpo attraverso la malattia. In questo scenario, il soggetto umano non è più l’Io logocentrato (contro il quale Freud progettò la sua psicoanalisi come una “ferita narcisistica dell’Io”) ma come questo corpo qui, il corpo (animale) che dunque io sono…
5 La frase è pronunciata ad un incontro registrato (Il Silenzio degli Animali, tra Heidegger e Derrida
https://www.youtube.com/watch?v=HTUFwOBv9Nw) in cui il padre del “pensiero debole” chiarisce molto bene il rapporto tra ontologia intesa come filosofia fondamentale dell’essere senza fondamento (il fondamento è sempre logocentrico, spiega Derrida), e il pensiero-trattamento da noi riservato all’animale. In questa conversazione Vattimo spiega: il pensiero debole è il pensiero dei deboli e per i deboli: è coniato per loro, per dar voce al loro silenzio.
6 Dal sito https://www.etimoitaliano.it/2014/05/sacro.html l’etimologia della parola sacro, se fatta risalire oltre il latino, rivela una interessante caratteristica di molti termini decisivi per il pensiero umano: la loro duplicità, la capacità di significare un senso ed il suo opposto, l’ambiguità radicale di ogni termine che usiamo per pensare filosoficamente e che si scoprono come parole che “danno da pensare”, nel senso più sospettoso del termine. La filosofia è dunque sempre un pensare sospettoso… Ad ogni modo, riportiamo quanto dice il sito alla voce sacro. Il termine è da ricondursi al latino sacer (forma arcaica sakros), la cui radice si ritrova all’accadico (lingua o insieme di lingue dell’area semitica, ormai estinte) saqāru (“invocare la divinità”), sakāru (“sbarrare, interdire”) e saqru (elevato). Simili radici come sac-, sak-, sag- troviamo nell’indoeuropeo col significato di aderire, attaccarsi (alla divinità). D’altro canto, nel sanscrito il verbo sac-ate significa seguire, accompagnare ed, in senso più ampio, adorare. Pertanto, il termine sacro rappresenta al contempo, da un lato, l’unione con l’ambito del divino, normalmente interdetto a quello del profano, dall’altro la separazione (appunto la “santità”, in senso etimologico) del sacro dal profano.
7 Su questo concetto si legga il bel libro di Jean-Luc Nancy, L’essere abbandonato, trad. di Elettra Stimilli Quodlibet, 1995

d’interesse (la storia del lupo e dell’agnello, non a caso due animali come nelle migliori
favole, illustra il rapporto tra l’uomo e l’animale) dovrebbe invece imporci la presa in cura
del suo statuto ontologico, del suo più autentico modo d’essere.

Ma cosa c’entra tutto questo con una mostra che ritrae elefanti?

Abbiamo sostenuto che l’animale è più vicino al dio che all’uomo, il quale è separato da
loro. Nell’India che Giuseppe Fabris sceglie come patria del suo modo di rappresentare
l’animale, l’elefante si congiunge al dio (e anche all’umano) in Ganesh, il “signore di tutti gli
esseri”. Il dio è antropomorfo e raffigurato nell’atto di danzare e di sorridere. Ma non è su
questa apparente attività umana che Fabris individua la superiorità ontologica dell’animale.

Qui serve richiamare il discorso fatto sullo sguardo della gatta di Derrida: nei ritratti che
Fabris dedica ad altrettanti musi di elefanti8, lo sguardo di ogni singolo pachiderma diventa
il luogo di una origine (un’anima?), forse perduta e che sarebbe bene ritrovare. Quello
sguardo ti fissa dal punto più esteticamente distante, quello della tela (anch’essa
silenziosa come un animale) che, rispetto alla prossimità della gatta vivente (e sottilmente
rumorosa) di Derrida, è maschera ma è anche imitazione ultra reale (grazie al potere della
pittura) di uno sguardo reale che ci ri-mette al mondo nella posizione ontologicamente più
giusta (potere del ménage à trois col dio e l’animale). L’esistenzialismo sartriano individua
l’esistenza come un peccato originale: oggi, il nostro stesso esistere è divenuto colpa nella
nuova forma del consumo delle risorse di Gaia, di cui l’animale è parte integrante. E se
questo peccato fosse la conseguenza di un peccato originale verso l’animale, di una sua
impropria oggettivazione?

Allora lo sguardo diventa decisivo. Le tele di Fabris, dalle quali altrettanti sguardi di elefanti
ci colgono colpevoli ribaltano su di noi il nostro stesso guardare. Finalmente io mi posso
guardare (percepire, ri-conoscere9) attraverso l’animale che mi guarda. Derrida sarebbe
felice di visitare una tale mostra, e anche noi: come sollevati, perdonati e rimessi al nostro
posto, vaghiamo nella mostra tra gli sguardi incredibilmente umanizzati e umanizzanti
degli elefanti di Fabris. Ma qual é il luogo in cui siamo posti da questa mostra?
La storia della pittura e perfino l’arte contemporanea sono giochi di sguardi10. In effetti,
l’arte è intessuta di sguardi: dal mito di Medusa (spaventosamente ritratta dal Caravaggio)
allo sguardo di Paride che compie la scelta, dalla riflessione sullo sguardo di Giulio Paolini
in Giovane che guarda Lorenzo Lotto allo sguardo marmoreo di Marina Abramović in The
artist is present. L’arte ci guarda più che essere guardata. Nel caso di Fabris è attraverso
di essa che l’animale ci restituisce lo sguardo. Ma l’animale ci vede? Ci permette di essere,

8 Dall’enciclopedia Treccani: muso è il termine che designa la parte anteriore della testa di qualunque animale e può essere esteso metaforicamente all’uomo.
9 Sia nel senso del conoscere nuovamente, in una ripetizione del conoscere, sia nel senso di una riconoscenza dei diritti e dei doveri legati alla propria posizione esistenziale di “dominatore”, di colui che è chiamato a prendersi cura della debolezza ontologica dell’animale, e del dio, che sono nostri vicini, il nostro prossimo…
10 A tal proposito si legga John Berger, Questione di sguardi, Il Saggiatore, 2015

sì, ma ci riconosce? Domanda aperta…. Lui ci ri-conosce, certo, ma sempre di nuovo ogni
volta che guarda (coazione a guardare): il suo sguardo è silente, senza parola, pensiero o
concetto che provvedano ad armarlo di senso. Meglio così poiché la parola, quando è
parola d’uomo a proposito dell’animale, sottrae il senso, rapina il senso dell’esistere
animalesco e ci sovrascrive un senso umano e manipolatorio. La povertà dell’animale, la
sua debolezza (cfr. Vattimo), sono la sua ricchezza. L’animale è ricco di povertà. L’animale
è ricco di mancanze, mentre l’uomo è povero di ricchezze. La regalità degli elefanti ritratti
da Fabris, che come un novello Anton Van Dyck (che dipinge ritratti memorabili della
nobiltà genovese) si pone di fronte e ritrae la nobiltà del mammifero terrestre più grande e
lento, dell’animale dotato di memoria prodigiosa, una memoria eterodossa rispetto
all’ortodossia di una memoria umana, sul cui modello riconosciamo, valutiamo e
valorizziamo (impropriamente e illegittimamente) la “memoria” di ciascun altro animale.

Fabris, in quanto uomo e pittore, ha creato una galleria di autoritratti per interposto
animale. L’elefante gli serve come specchio per ritrovare una traccia di umanità perduta,
smarrita dentro un Occidente che è innanzitutto una posizione esistenziale, un accadere
che è il venire all’essere nella forma di un soggetto assoggettato alla propria volontà di
potenza. Il gesto della pittura serve a svestire i panni del soggetto occidentale, mentre il
ritratto è il gesto che l’artista compie come atto di riconoscenza verso il muso dell’animale
che si fa volto, verso la maschera inespressiva dell’animale che si fa sguardo. In questo
modo, Fabris percorre la via battuta da Rembrandt, quando decide di autoritrarsi nel
tempo per trovare conferma di una condizione esistenziale e per scorgere sul proprio volto
il senso di una vita posta alla prova degli accadimenti. Fabris sembra compiere la stessa
avventura ma lo fa chiamando in causa l’elefante come alter ego e come anti-ego.

La de-soggettivizzazione del soggetto che Fabris prova ad attuare avviene attraverso il
ritratto moltiplicato dell’animale che si emancipa ed assume una intensità “umana”.
Diversamente da Rembrandt, che ha prodotto autoritratti diacronici, mostrando la
trasformazione temporale di un soggetto che rimane uno e si riafferma ogni volta nella
propria identità unitaria, l’auto-ritratto progettato da Fabris diventa molteplice e sincronico:
la deflagrazione dell’unità dell’elefante (in quanto entità astratta) nei diversi volti di singoli
elefanti individuati mette in evidenza la moltiplicazione differenziante che attraversa il
soggetto e lo costituisce come una pluralità di voci e relazioni.

Ma cosa significa tutto ciò? La ripetizione del differente (destino tipico dell’animale)
rappresenta uno dei concetti chiave del XX secolo, dal momento in cui l’uomo, in quanto
dominatore del proprio mondo, scopre di essere egli stesso dominato da ciò che davvero
lo rende un soggetto: la sua relazione con l’oggetto. Il XX secolo, più dei precedenti, vede
l’affermazione dell’oggetto in tutte le sue forme e maniere, come ciò che contrasta,
sostituisce, sopperisce alle mancanze del soggetto senza arrivare a possedere la
coscienza ma rendendola possibile proprio attraverso il suo dar da pensare. Il soggetto si
forma e deforma in questo pensiero che pro-getta l’oggetto, in questa avventura che la
moltiplicazione degli oggetti consente ed impone: dalla guerra meccanizzata, fino al web,
agli integratori o alle protesi. Fino agli allevamenti intensivi, dove l’animale è ormai ridotto
a mero oggetto utilizzabile. Il XX secolo è anche la “scoperta” (e riduzione gnoseologica)
dell’universo come oggetto di uno studio, che avviene attraverso l’utilizzo di ulteriori
oggetti. Possiamo dire che la modernità si dibatte tra una moltiplicazione forsennata di
oggetti, in cui si riflette e si produce la frantumazione del soggetto, e l’idealismo di un Io
(cartesiano o hegeliano) che pretende di assumere il ruolo di perno, di punto fisso attorno
a cui far ruotare il reale.

In questa condizione, in cui l’animale appare come un oggetto tra gli altri, dipingere
l’animale significa per Fabris provare a restituirgli oltre che il volto e lo sguardo, che ci
guarda, anche una parola propria, che coincide con il silenzio e l’assenza di una parola
propria. Ogni elefante ritratto dall’artista si può intendere, seguendo Derrida, come il
silenzio di una parola non detta e quindi come l’affermazione, la conquista e la
rivendicazione di una parola. Che cosa ha da dire questo elefante che mi trovo davanti,
questo specifico esemplare? Ci dice innanzitutto che gli animali non sono individui, che la
loro singolarità è quella degli esemplari, esempi di una categoria più vasta, di un genere o
di una specie. Nella parola l’uomo conquista il nome proprio (il gatto o il cane a cui diamo
un nome non lo sa pronunciare). Possedere un nome proprio significa possedere una
parola propria, un’identità singolare e individuale. La pittura di Fabris sembra capace di
restituire all’animale il proprio sguardo e la parola propria che ci fanno vedere e ci dicono,
forse, proprio ciò che davvero siamo.

Nicola Davide Angerame 2021

Memoria eterodossa

Come sono nate queste opere, perché proprio l’elefante ?

Sono nate da un errore, che poi è divenuta un’intuizione quindi una “mise en forme”.
Il lavoro non è nato dalla rappresentazione, questa è avvenuta in seguito, prima era la presenza,
un sudario in cui sovrimpresse erano evidenti le memoria di una “texture” riconducibili a tracce di
pelle.

Una pelle segnata, una pelle vissuta.

Il caso, l’errore, l’intuizione fanno parte della professione dell’artista, quindi questo “errore” può
divenire altro.
L’elefante e il suo sguardo, diviene in seguito solo il trofeo, il cranio che porta con se le sue preziose
e pericolose zanne, pericolose non per gli altri ma per lui stesso.
L’elefante è l’Africa, o meglio in questo caso è l’elefante africano.
L’elefante ha la stessa longevità dell’uomo ed è uno degli esseri terrestri più antichi, testimone
della vita sulla terra.
L’elefante è la saggezza, è l’anziano che avanza lento ma sicuro, anche se estremamente fragile.
E’ il vecchio saggio, che porta con lui la storia di generazioni, ed è proprio lui che detiene la
ricchezza della memoria. Però la funzionalità del vecchio saggio è quella di essere, che è proprio
l’essenza della non funzionalità, che ovviamente si scontra con la nostra società sempre più
avida e malsana.
Quindi ecco che il vecchio saggio è visto come un’inutilità, come un corpo inefficiente che ha
anche bisogno di cure. Questi “vecchi” sono degli errori, degli incidenti di percorso, come i miei
elefanti, come me stesso che dipingo, suono, progetto, costruisco situazioni (chiamate troppe
volte entertainment ) io che quindi non ho una “funzionalità” produttiva di consumo, io sono
quell’elefante.

I miei elefanti sono ormai dei trofei imbalsamati , solo il loro cranio con lo sguardo fisso verso
l’osservatore diventano l’ultima testimonianza, come il vecchio cosi stanco che solo lo sguardo
ha ancora di vivido ed eloquente, e come è loquace lo sguardo di un anziano.
Restano brandelli di pelle, qualche zanna decorata ed incisa testimonianza di un passato cosi
scomodo che la memoria vuole cancellare, senza capire che senza memoria siamo destinati a
cadere nel girone della ripetizione estatica e meccanica dove si sta dirigendo sempre più il nostro
mondo.

Giuseppe Fabris 2021

Heterodox memory

How were these works born, why the elephant?

They were born from an error, which then became an intuition and eventually a ‘mise en forme’.
The work was not born from a mental image, it appeared first as a ghostly presence, like a shroud
on which the remnants of a skinlike texture could still be seen.

A marked skin, a worn skin.

I believe that chance, error, intuition are part of the artist’s profession, so that “errors” can
become something else.
The elephant and its gaze later becomes only a trophy, the skull that carries its precious and
dangerous tusks, dangerous not so much for others as for himself.
The elephant, in this case the African bush elephant, as opposed to its tamed Asian cousin, is the
emblem of Africa.
The elephant has the same longevity as man and is one of the oldest terrestrial beings,a witness
of life on earth.
The elephant is wisdom, it is the old man who moves slowly but surely, even if he is extremely
fragile.
It is the old sage, who carries with him the history of generations, and it is he who holds the
treasure of memory. But the function of the old wise man is that of being, which obviously
clashes with our increasingly greedy and unhealthy society.
So in our world the old wise man is seen as useless, as an inefficient body that needs being cared
for. These “old men” are errors, accidents along the way, like my elephants, like people who paint,
play music, design, build situations (too often called entertainment), who therefore do not have a
productive consumer function. I am that elephant.

My elephants are now stuffed trophies, only their skulls with their gaze fixed on the observer
become the last testimony, like the old man so tired that only his gaze is still vivid and eloquent.
How eloquent is the gaze of an elder.
There are scraps of skin, some decorated and engraved tusks that are the evidence of a past so
uncomfortable that memory wants to erase it, without understanding that without memory we
are bound to fall into the whirling circle of ecstatic and mechanical repetition towards which our
world is increasingly heading.

Giuseppe Fabris 2021

Mémoire hétérodoxe

Comment ces oeuvres ont-elles vu le jour et pourquoi l’éléphant?

Elles sont nées d’une erreur, qui est devenue une intuition et ensuite une mise en forme.
L’oeuvre n’est pas née d’une représentation, cela est venu plus tard, avant qu’elle ne soit la présence,
un linceul dans lequel les souvenirs d’une texture semblable à des traces de peau étaient
évidents.

Une peau marquée, une peau vécue.

Le hasard, l’erreur, l’intuition font partie du métier d’artiste, et donc cette “erreur” peut devenir
autre chose.
L’éléphant et son regard ne sont ensuite que le trophée, le crâne qui porte ses défenses précieuses
et dangereuses, dangereuses non pour les autres mais pour lui-même.
L’éléphant c’est l’Afrique, ou plutôt dans ce cas c’est l’éléphant d’Afrique.
L’éléphant a la même longévité que l’homme, c’est l’un des plus anciens êtres terrestres, témoin
de la vie sur terre.
L’éléphant c’est la sagesse, c’est l’aîné qui se déplace lentement mais sûrement, même s’il est
extrêmement fragile.
C’est le vieux sage, qui porte en lui l’histoire des générations passées, et c’est précisément lui qui
détient la richesse de la mémoire. Mais la fonctionnalité du vieux sage est celle de l’être, qui est
justement l’essence de la non-fonctionnalité, qui se heurte évidemment à notre société de plus en
plus avide et malsaine.
Ainsi, ici, le vieil homme sage est vu comme inutile, comme un corps inefficient et qui a même
besoin de soins. Ces « vieux » sont des erreurs, des accidents de parcours, comme mes
éléphants, comme moi qui peins, qui joue de la musique, qui dessine, qui construit des situations
(trop souvent appelées divertissements), qui n’ont donc pas de «fonctionnalité» de consommation
productive, Moi, je suis cet éléphant.

Mes éléphants sont maintenant des trophées embaumés, seuls leurs crânes avec leur regard fixé
sur celui qui les observe deviennent le dernier témoignage, comme celui du vieil homme si
fatigué, dont seul le regard reste vif et eloquent et combien est éloquent le regard d’un viel
homme!
Il ne reste plus que des lambeaux de peau, quelques défenses décorées et gravées, témoignage
d’un passé si pénible que la mémoire veut l’effacer, sans comprendre que sans mémoire nous
sommes destinés à nous inscrire dans le cercle de la répétition extatique et mécanique vers
laquelle notre monde se dirige de plus en plus.
Giuseppe Fabris
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