2008
Le indagini etno-antropologiche di M. Mauss rilevano come nello scambio dei doni non sia tanto in gioco il bene o la cosa scambiati quanto la forma stessa dello scambio.
La pratica del « Potlatch » (parola che significa allo stesso tempo « nutrire » e « consumare ») può infatti consistere non solo nello scambio di doni, ma vincolare e obbligare chi riceve alla restituzione di un dono “maggiore” e così via fino a quando una delle due parti non è più in grado di ricambiare.
Lo scambio è quindi simbolico in quanto nonfunzionale. Non si scambiano oggetti per ottenere ciò che serve, bensì per liberarsi dallo stato di « servitù » in cui pone il bisogno.
Ciò che si scambia non è mai inerte, ma possiede uno « spirito », il mana o hau, che non appartiene alla cosa in sè, ma le deriva da colui dal quale proviene. Fuori tempo e fuori contesto « arcaico » Giuseppe Fabris propone un dono-scambio in cui l’oggetto primario rimane e si identifica con il suo proprio corpo.
Dopo averne effettuato una parcellizzazione e una mappatura completa, procede a scolpire e a levigare i singoli frammenti su saponi-di-Marsilia. Per poi confezionarlie metterli a disposizione del pubblico a una sola e puntuale prescrizione: quella di « ricambiare » attraverso la restituzione di una immagine fotografica della corrispondente parte di corpo ricevuta e scelta casualmente tra le 229 messe a disposizione in confezione regalo.
Il dispositivo relazionale viene attivato nel senso pieno di una partecipazione condivisione finalizzata a riformulare in forma ibrida un’identità multipla e variegata. Al punto di assecondare una sorta di grado « zero » nell’auspicata ricomposizione dell’immagine finale e conclusiva. Aperta a comprendere e a ridefinire al tempo stesso un Corpus collettivo e anonimo, sacro e profano, dilatato e concentrato nell’anomia di un prototipo.
Roberto Daolio
Giugno 2008